Quanto fa paura il piombo oggi? Normalmente si pensa ai tumori, all’inquinamento, alle morti causate, ma pochi sanno che a Roma questo metallo, facilmente lavorabile, venive utilizzato per qualsiasi utensile e, soprattutto, per tubature o addirittura bicchieri, che portavano ambedue l’acqua corrente che poi veniva ingerita.
Come vedremo più avanti, scopriremo che i sali di piombo venivano utilizzati anche per addolcire il vino.
Roba da matti.
Che potesse portare alla morte, molto probabilmente, nessuno ne era a conoscenza ma ora sappiamo bene come si chiama questa vera e propria “pandemia”che ha imperversato nell’antica Roma (ma non solo): il saturnismo.
Qualche tempo fa ho fatto una visita ad un sito archeologico posto lungo il c.d. Vicus Caprarius non ho potuto fare a meno di chiedermi quanto fosse presente il piombo nella vita dei Romani circa 2.000 anni or sono.
Infatti, i lavori di ristrutturazione dell’ex Cinema Trevi, a pochi passi dalla famossissima fontana, hanno permesso alla Soprintendenza Archeologica di Roma di effettuare nell’area una campagna di indagine archeologica. L’area indagata si trovava, in antico, all’interno della VII regio, che comprendeva tutto il Campo Marzio orientale ed era delimitata dalle mura Aureliane, dalla via Salaria vetus – Pinciana, con il suo prolungamento chiamato vicus Caprarius, e dalla via Lata. I recenti scavi al di sotto del cinema hanno messo in luce due edifici, contigui e contemporanei, allineati, sul lato ovest, lungo il vicus Caprarius o Capralicus. Il nome deriva probabilmente dalla presenza di un’aedicula Capraria, forse un’area di culto legata a Iuno Caprotina. L’edificio nord può essere identificato come un complesso abitativo di tipo intensivo: la cosiddetta insula, termine, non del tutto appropriato (esso infatti doveva indicare in antico un isolato di un quartiere abitativo), usato per indicare una casa ad appartamenti, normalmente in affitto, caratterizzata da un’elevazione su più piani e la presenza di botteghe al pianterreno. Questa costruzione fu poi trasformata in domus. Per l’edificio sud, anch’esso ben conservato in alzato, è possibile pensare una destinazione d’uso di tipo pubblico, non ben definita, data la presenza di vani molto grandi, coperti con volta a botte, sostanzialmente indifferenziati. La fase edilizia originaria può essere attribuita, anche in questo caso, all’età neroniana. Si riconosce una seconda fase adrianea, durante la quale due ambienti, adiacenti al vicus Caprarius, vengono trasformati in un unico, grande serbatoio idrico: si raddoppia lo spessore dei muri perimetrali, per far fronte alla pressione dell’acqua, e si rivestono tutte le superfici con uno spesso strato di cocciopesto, per impermeabilizzare. Va segnalata l’assenza di depositi calcarei, piuttosto insolita per un serbatoio urbano, ma in effetti l’aqua Virgo si caratterizzava proprio per il contenuto di calcio estremamente basso. Le caratteristiche della struttura permettono di identificare quasi certamente questo serbatoio con il castellum aquae dell’acquedotto Vergine.
Facendo il giro per questo sito è possibile scorgere, vista la vicinanza con le condutture dell’acqua Vergine e tenuto conto che i padroni della villa, evidentemente molto facoltosi, fecero arrivare una parte delle condutture direttamente dentro la propria residneza, i resti degli allacci fatti in… piombo! Ma tutte le tubature degli acquedotti erano realizzate con l’ausilio del piombo.
Del resto questi reperti non sono gli unici che si possono “ammirare” a Roma, ma a me hanno permesso di riflettere sull’utilizzo di questo veleno e della sua pericolosità.
Varie congetture si sono fatte, addirittura un team di ricercatori britannici sta conducendo degli studi sull’inquinamento da piombo proveniente per via atmosferica da paesi lontani dove vi erano miniere del metallo lavorato in loco. Uno di questi paesi, immaginate, si è scoperto che era la lontana Islanda. Ebbeni sì, sembrerebbe che da Roma siano arrivate delle particelle in una palude salmastra in Islanda, databili 2.000 anni fa.
Del resto i romani utilizzavano il piombo proprio per tutto.
A cominciare dalle tubature degli acquedotti, per passare a tutti gli oggetti di uso quotidiano come i bicchieri e le stoviglie; basti pensare che persino il rossetto era costituito di un derivato del piombo e, incredibile immaginarlo, almeno oggi, addirittura era utilizzato per addolcire il vino.
Tutto questo piombo evidentemene non faceva bene, anzi, soprattutto la pratica di aggiungerlo come edulcolorante del vino provocava un progressivo accumulo di piombo nell’organismo, che si rifletteva in comportamenti anomali e schizofrenici, i quali delineavano perfettamente la pazzia, tipica del saturnismo.
La follia degli Antichi Romani sembra essere dovuta proprio al saturnismo: gli Antichi non solo addolcivano il vino con gli ossidi di piombo, ma lo conservavano anche in botti di piombo; l’acidità del vino era ritenuta la responsabile dello scioglimento dell’ossido di piombo che, dal contenitore, passava nel vino.
Il saturnismo indica una grave intossicazione da piombo organico e metallico, un avvelenamento a tutti gli effetti innescato dall’esposizione continua ed assidua del soggetto a questo minerale. Il saturnismo è causato dal contatto, dall’inalazione o dall’assorbimento del piombo attraverso le mucose, la cute o l’apparato gastro-enterico. Il termine “saturnismo” deriva da “Saturno”, appellativo che gli alchimisti attribuivano al piombo.
Solo per riportare dei nomi famosi, è stato ipotizzato che alcuni imperatori romani come Tiberio, Caligola, Domiziano, Commodo e forse Nerone erano forse affetti da saturnismo e per questo motivo si pensa che questa malattia fosse molto diffusa tra i ricchi romani.
Fare un distinguo con i poveri è indubbiamente un elemento importante poiché secondo gli ultimi studi, la teoria dell’avvelenamento “in massa” da piombo di “tutti” i romani, non solo quelli più agiati, sembrerebbe non reggere.
L’acqua che bevevano gli antichi romani conteneva una quantita’ di piombo 100 volte superiore rispetto a quella presente nelle sorgenti, ma non costituiva comunque una seria minaccia per la salute. A descrivere esattamente per la prima volta la qualita’ dell’acqua dell’antica Roma e’ la ricerca coordinata dall’universita’ francese Lumiere, di Lione, e pubblicata sulla rivista dell’Accademia delle scienza degli Stati Uniti, Pnas. I ricercatori si sono basati sui campioni dei sedimenti prelevati dall’antico Canale Romano, che collegava il Tevere alla Fossa Traiana, nelle vicinanza del Porto di Traiano e del Porto di Claudio, nella zona in cui oggi si trova Fiumicino. I dati sono stati inoltre confrontati con quelli ottenuti analizzando i sedimenti nella zona che precede il delta del Tevere e cinque tubature di piombo del periodo compreso fra primo e secondo secolo. Quello che emerge, scrivono i ricercatori, è ”un diffuso aumento della quantità di piombo presente nel sistema di distribuzione dell’acqua potabile”. Questo attesta in modo indiscutibile il generale inquinamento da piombo nell’acqua dell’antica Roma, anche se le concentrazioni di questo metallo erano a livelli non tali da rappresentare una minaccia per la salute.
Ma non ci dobbiamo scandalizzare: tenete infatti presente che i romani – tanto per fare un altro esempio – ancora non conoscevano il periodo di fertilità di una donna… pensate se potevano immaginare i danni provocati dal piombo.
Buona cultura.
sarà per questo che vivevano solo fino ai trent’anni?Ma le famose fontanelle e le varie fontane in giro per roma,non conterranno tratti ancora con piombo?
Assolutamenteno, stiamo parlando di strutture di 2.000 anni fa e presenti solo negli scavi archeologici… Stai sicura!